Fin da studente di architettura, le ciminiere e il loro modo di contraddistinguere un paesaggio hanno sempre attirato la mia attenzione. Nata e vissuta dove la manifattura incarnava il genius loci dell’epoca moderna, questi simboli dell’industria che fu, oggetti senza tempo della metafisica urbana di De Chirico, mi sono sempre stati amici.
Poi, negli anni e con l’esperienza, ho provato a osservare meglio e ho capito che un luogo lo comprendi proprio dal suo skyline; è lui che genera, pur inconsapevolmente, il tuo senso di appartenenza. O lo riconosci, o ti sentirai sempre un estraneo.
“Chi mai sì duro o sì invido non lodasse Pippo architetto vedendo qui struttura sì grande, erta sopra e’ cieli, ampla da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani” scriveva Leon Battista Alberti di quella cupola brunelleschiana che avrebbe cambiato per sempre il profilo di Firenze e accresciuto l’orgoglio dei fiorentini.
Perché è nel variare del profilo che separa terra e cielo, per addizione o sottrazione, che comprendi un territorio, la sua storia e le sue ambizioni. Un po’ quello è avvenuto per il paesaggio lombardo di inizio Novecento, dove lo sconfinato e piatto orizzonte, che neppure i campanili benedettini e cistercensi avevano saputo davvero connotare, è stato completamente ridisegnato dai contorni delle nuove industrie, dagli impianti idrici per generare energia e dalle loro ciminiere.
E anche oggi che sono considerate alla stregua di archeologia industriale, queste “cattedrali del lavoro” consegnano al futuro il valore simbolico dei loro fumaioli. Come menhir della civiltà della macchina o come obelischi della fabbrica tempio, come minareti laici o come campanili senza un orologio a scandire le ore del lavoro, ci ricordano che ogni epoca ha la sua elevazione e ogni cielo la sua torre.