L’affermazione pubblica delle superfici vetrate avvenne nel 1851, con l’edificazione del Crystal Palace all’Esposizione Universale di Londra. Ma la vera consapevolezza della rivoluzione che il vetro avrebbe introdotto nel concetto stesso di architettura, arrivò solo cinquant’anni più tardi, quando le qualità di questo materiale servirono a liberare l’arte dall’estetica statalista di stampo industriale e una controcultura iniziò a fendere la parete muraria per inseguire nuove forme di elevazione espressiva.
La trasparenza dell'”era del vetro” segnò la fine della civiltà dell’intérieur borghese, fatta di un “dentro” e di un “fuori”, di pesanti tendaggi dietro cui nascondersi.
In antitesi al concetto di soglia, l’apertura dell’involucro non solo liberò lo spazio chiuso, ma contribuì anche alla profonda trasformazione del significato di edificio, da metafora del corpo umano a “materia immateriale”, separando per sempre la sua realtà strutturale dall’immagine.
“Filtro e schermo riflettente, dialogo fra dentro e fuori. La superficie della terra sarebbe completamente diversa se l’architettura in mattoni fosse sostituita ovunque con il vetro”
scriveva Bruno Taut.
Oggi che la trasparenza del contenitore concentra l’interesse sull’esibizione del suo contenuto, la natura funzionale del muro cede al suo valore simbolico il ruolo di filtro tra costruzione, ambiente urbano e valori sociali, con i quali la riflessione sull’architettura contemporanea si trova, necessariamente, a dover fare i conti.